Homegrappers, si può fare la grappa in casa?

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Chi abita in una zona vitivinicola lo sa. Quando si viene invitati a cena da una persona che frequenta il mondo del vino, o che produce vino, giunti all’ammazzacaffè l’oste porterà in tavola una bottiglia non identificata, il cui colore varia dal bianco trasparente al giallo paglierino spento.

Il contenuto viene versato nei bicchierini e, con fare tra il sospettoso e l’esaltato, verranno pronunciate le parole: «Questa è fatta in casa, eh?».

Se la birra si può tranquillamente fare nel salotto, e il vino, con le giuste attrezzature, nel garage, la grappa si potrà o non si potrà fare in casa?

Cerchiamo di fare chiarezza.

Negli ultimi anni il fenomeno del DIY, ovvero del Do It Yourself ha letteralmente spopolato. Esistono corsi e lezioni per imparare a fare qualsiasi cosa: muretti a secco, tavoli in radica, composizioni floreali, giardini pensili, idrocultura. Anche settori professionali delicati e altamente specializzati come quelli enologici sono diventati il campo di applicazione di moltissimi amatori. Tra loro, i fermentatori-distillatori non si contano.

Si è iniziato con la birra e i relativi kit, acquistabili ormai in qualsiasi supermercato. Si è proseguito con i kit anche per il vino: con risultati alterni vista la complessità di ottenere vini homemade (tuttavia, i garage-wine, come vengono definiti in Usa, sono una realtà consolidata). Infine, anche la grappa e la distillazione sono state oggetto, e lo sono tutt’ora, dell’onda «fatto in casa», guadagnandosi l’appellativo di homegrappers. Però c’è un però.

IN PRINCIPIO

Innanzitutto, la grappa fatta in casa non è una novità, anche se ha un nome più cool. A partire dal XIV-XV secolo, generazioni di contadini e viticoltori si impadronirono dell’arte della distillazione, “rubandola” o imparandola dagli alchimisti, che forse decisero di trasformare la loro “ricerca spirituale” della quintessenza in qualcosa di più remunerativo. La grappa fatta in casa era anche una necessità di economia domestica. Secondo il detto rurale «nulla si butta, tutto si trasforma», anche le vinacce utilizzate per fare il vino potevano avere una seconda vita. Così, come accadeva in Scozia per le eccedenze di grano, in Italia si cominciò a «fare spirito» delle bucce e dei vinaccioli dell’uva pigiata, ottenendo le prime, e rusticissime, grappe tricolori. Non è un caso che gli alambicchi contadini si diffusero soprattutto nelle zone vitate. Nel XVII e XVIII secolo si hanno addirittura notizie di alambicchi su ruote, aggeggi più o meno funzionanti che viaggiavano di cantina in cantina distillando le vinacce del luogo.

DUNQUE LA GRAPPA SI PUÒ FARE IN CASA?

Si può fare, con le dovute accortezze, ma non può essere chiamata grappa. Lo stato italiano vieta la produzione di «grappa» al di fuori di quella che è assoggettata ad un preciso regime di accise e controlli di qualità. Il testo del decreto ministeriale recita: «Chiunque fabbrica clandestinamente alcole o bevande alcoliche è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa dal doppio al decuplo dell’imposta evasa». La norma punisce la fabbricazione clandestina ovunque essa sia svolta, sia con modalità industriale e a scopo di lucro che privatamente.

Distillare in modo casalingo, inoltre, presenta un certo grado di pericolosità e non garantisce la sicurezza del prodotto finito. La grappa è infatti come un serpente: ha una «coda» e una «testa», che è quella da tenere sotto controllo perché qui si annidano l’alcol metilico e gli alcoli superiori (per approfondire leggi il nostro post dedicato alla rettificazione).

Un mastro grappaiolo conosce come eliminare «code» e «teste» alla perfezione ed evitare intossicazioni. Infine, ogni partita di grappa prodotta, prima di essere immessa sul mercato, viene analizzata da un organo statale competente, il quale rilascia l’autorizzazione solo dopo analisi qualitative volte a controllare la salubrità del prodotto. È allora che si può chiamare Grappa e può essere consumata senza pensieri.

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