Storia di Marolo, origini di una passione
A giugno di quest’anno, Marolo festeggerà i 40 anni di attività. Un’avventura che, a partire dalla fine degli anni ’70 non ha soltanto portato la distilleria di Alba a distinguersi per la qualità dei suoi prodotti, ma ha creato forti legami con il territorio e, più in generale, ha scritto un capitolo dell’emancipazione della grappa, da prodotto povero e di scarsa qualità ad eccellenza italiana.
Una storia della grappa contemporanea che, a ben guardare, sarebbe tutta da scrivere e che, in parte, vorremmo raccontare a partire dalla nostra esperienza. Seguiteci, perché in questo e nei prossimi post, parleremo della nascita e delle conquiste della distilleria Marolo, narrando, al contempo, un pezzo di storia dell’Albese e dei distillati piemontesi.
Nostro interlocutore d’eccezione sarà Paolo Marolo. Non solo un mastro grappaiolo di consolidata esperienza, ma un imprenditore lungimirante che alle intuizioni commerciali ha saputo unire l’appartenenza ai propri luoghi d’origine, creando, attraverso la grappa, legami inscindibili con il territorio e le colline oggi riconosciute Patrimonio dell’Umanità Unesco.
Paolo Marolo, può raccontarci qual è stato il suo primissimo incontro con i distillati?
Per rispondere a questa domanda devo partire dagli anni ’60, quando ero appena ragazzo. I miei genitori erano proprietari di un celebre locale di Alba, il caffè Umberto di piazza Savona (oggi piazza Michele Ferrero n.r.d.). Ricordo che mio padre, nelle cantine del suo locale, produceva il vino e per il bar e preparava anche il vermouth, allora uno degli aperitivi più apprezzati. Tra le bottiglie conservate sul bancone compariva anche la grappa, qualcosa di molto diverso da quella che conosciamo oggi.

Paolo Marolo, fondatore della distilleria
Ci può spiegare meglio?
Allora, la grappa veniva chiamata branda, dal piemontese brandé, che ha il significato di «ardere», «andare di buona lena», «darsi da fare con foga». Una bevuta tutta maschile, che ti tagliava lo stomaco. La consumavano ferrovieri sporchi di fuliggine, cantonieri dalle mani callose, scaricatori, gente che cominciava la giornata con due cicchetti. La grappa, fino agli anni ’70 era davvero un sostituto alimentare: mio padre, a mezzogiorno, aveva già finito due bottiglie. Per farvi capire, ricordo che un caffè costava 50 lire, un grappino 15.
Che tipi di grappa c’erano in commercio?
C’era pressoché un’unica tipologia di grappa: chiara, quasi trasparente, dal sapore tagliente, urticante, altamente alcolica. Si beveva liscia, nel caffè o aromatizzata. Ricordo che colmavamo alcune bottiglie con lo sciroppo di menta, agitavamo il tutto e la servivamo nei bicchieri: veniva chiamata la «griogioverde», per via del suo colore. Dall’introduzione dei disalcolatori continui, negli anni ’60, vista l’enorme richiesta, la grappa era una bevanda alcolica abbastanza scadente, distillata per fare quantità: veniva considerato un prodotto ottenuto dagli scarti della vinificazione, una dose di “carburante” per dirla con un eufemismo. Se agli inizi del secolo in Italia si contavano oltre mille piccoli produttori di grappa, nel dopoguerra il numero si era ridotto a poche centinaia, tutti grandi impianti di carattere industriale.
Lei intanto, aveva cominciato la scuola Enologica.
Avevo seguito la mia propensione pratica, optando per il glorioso Regio Istituto Umberto I. Allora era una scuola enologica di livello universitario, una delle pochissime in Italia. Chi entrava all’Umberto I sapeva di essere un predestinato, avrebbe certamente lavorato nel mondo del vino e dell’enologia, rivestendo anche ruoli di prestigio. Non era per nulla facile finire i sei anni del corso e gli studenti erano poche decine, la metà dei quali abbandonava prima di terminare gli studi. C’erano tuttavia laboratori all’avanguardia, ottimi insegnanti e rapporti molto stretti con il mondo produttivo. Si studiavano materie scientifiche e si accompagnava la teoria alla pratica, anche faticosa. Per essere ammessi bisognava presentare un certificato di sana e robusta costituzione.
Fu qui che maturò la sua passione per i distillati?
Diciamo che la Scuola Enologica fu il motore del mio successivo interesse. Non da studente, ma in qualità di insegnante. Dopo essermi diplomato nel 1967, mi offrirono di tenere alcune lezioni nel mio stesso istituto. Lasciai biologia per l’insegnamento, che non abbandonai più. Pochi anni più tardi, l’allora preside, il professor Vainer Salati, mi offrì di tenere un corso di Erboristica. Era una richiesta che mirava a recuperare gli insegnamenti di un notissimo farmacista albese, nonché pittore, artista e inventore: Pinot Gallizio.
Fu allievo di Gallizio?
Indirettamente. Le sue lezioni, iniziate nel 1946 e terminate nel 1962, anno della morte, erano mitologia fra gli studenti, che lo amavano molto. Tra le sue passioni, c’era quella della creazione di liquori e aromi a partire dalle erbe locali, motivo per cui fu chiamato ad insegnare alla scuola enologica di Alba. Negli anni, Gallizio aveva lasciato preziosi appunti che recuperai e studiai con dedizione e passione. Producemmo una dispensa per gli studenti e organizzai il corso, era il 1972. Tra le lezioni proposte, c’erano anche quelle sulla distillazione, che affrontammo dal punto di vista teorico e pratico. Fu durante la preparazione di quel corso che, per la prima volta, distillai la grappa. Mi sperimentai anche nell’infusione di erbe per i liquori e nella creazione di vermouth. Nozioni che ancora oggi sono alla base dell’esperienza di Marolo, e costituiscono una inesauribile fonte di ispirazione per nuovi prodotti, come, ad esempio l’Amaro Ulrich.
L’EREDITÀ DI PINOT GALLIZIO
Giuseppe Pinot Gallizio fu uno dei più influenti personaggi del dopoguerra Albese. Uomo dal carattere travolgente e contradditorio, fu farmacista, chimico, consigliere comunale, studioso di etnologia e archeologia, partigiano. Ma, soprattutto, fu pittore fecondo e geniale, uno dei padri fondatori dell’Internazionale Situazionista a cui aderirono artisti di fama mondiale quali Guy Debord, Michèle Bernstein, Ralph Rumney. Tra le sue passioni, quella per le erbe aveva un posto speciale. Gallizio difendeva l’erboristica in chiave enologica, come una delle eccellenze di Langhe e Roero per la preparazione di liquori e amari. Nel dopoguerra fondò un laboratorio ribattezzato La Chimica Vegetale, dove commercializzò la sua famosissima Erbasana, a metà tra l’elisir e l’amaro. Dal 1946 alla morte, avvenuta nel 1964, tenne un corso in Piante medicinali ed erboristica enologica alla scuola enologica di Alba.
Storia di Marolo, parte 2