Storia di Marolo, Santa Teresa della grappa
A giugno 2017, Marolo festeggerà i 40 anni di attività. Un’avventura che, a partire dalla fine degli anni ’70, ha scritto una pagina della storia della grappa contemporanea, facendo spiccare la distilleria di Alba per la qualità dei prodotti e il forte legame con il territorio d’origine.
Continua la nostra intervista a Paolo Marolo, fondatore dell’omonima distilleria. Dopo averci raccontato le origini della sua passione per la grappa e gli esordi come insegnate-distillatore, nel 1977 Paolo inizia una nuova avventura.
Signor Marolo, ci eravamo lasciati con lei che insegnava alla Scuola Enologica di Alba. Come è passato dai banchi agli alambicchi?
Figlio di commercianti, nel mio DNA è inscritto il “vizio” di cogliere le opportunità commerciali nelle nuove occasioni che mi capitano sotto mano. Per natura, sono una persona che non sta mai ferma e porta avanti più progetti in contemporanea. Mentre insegnavo come fare la grappa, ho capito che potevo iniziare un’avventura imprenditoriale autonoma, dare il mio contributo alla storia della grappa italiana, che si era trasformata in un prodotto puramente industriale, perdendo il gusto e l’emozione dell’artigianalità. Un’idea che era nell’aria e bisogna cogliere in quel preciso istante.
Perché?
Il 1973 regalò ai distillatori d’Italia una piccola “epifania”. Giannola Nonino, la «Signora Nonino» come veniva chiamata, creò e distillò la prima grappa monovitigno: la Picolit. Fu una rivoluzione in grado di tracciare una nuova strada e di dare nuovo impulso ad un settore fiorente, ma qualitativamente inflazionato.
Come colse che qualcosa stava cambiando?
La grappa nasce come prodotto contadino, povero, nato dagli scarti della vinificazione. Allora tutto ciò che era buono, veniva venduto per trarre un – misero – profitto. Ciò che si teneva per sé erano gli avanzi, la trasformazione dei quali era diventata una vera e propria arte delle cucine di campagna. Le vinacce, ad esempio, venivano riutilizzate per ben due volte. La prima per creare il vinòt, un vinello ottenuto dalla rifermentazione delle stesse con aggiunta di acqua, ideale come bibita rinfrescante. Solo allora si procedeva alla distillazione di quello che rimaneva. Quando sul mercato uscirono le prime grappe monovitigno, capii che era arrivato il momento di una svolta: le tecniche artigianali contadine potevano essere applicate a materie prime di qualità, per distillare una grappa di eccellenza.
Cosa accadde?
Feci un ragionamento semplice. Vivevo e vivo tutt’ora ad Alba, capitale di uno dei territori vitivinicoli più importanti al mondo, uno dei più ricchi dal punto di vista varietale. Perché non cominciare anche qui a distillare da monovitigno, ed esprimere nella grappa quell’eccellenza che stava trainando tutta l’economia del territorio?
Quando cominciò a produrre?
La prima distillazione fu nel 1977, in una cascina appena fuori dalla città di Alba in direzione di Canale. Produssi una grappa di sole vinacce di Arneis, all’epoca rarissima e praticamente introvabile, una di dolcetto e, naturalmente, una di nebbiolo, il vitigno principe di queste colline.

Alambicco di Marolo costruito sa Tullio Zadra
Ci può raccontare perché titolò a Santa Teresa la distilleria?
Un tempo, non so dire esattamente quando, gran parte dell’area compresa tra le frazioni albesi di Mussotto e Scaparoni apparteneva a possidenti di origini giudaiche. Un segno riscontrabile nell’uniformità architettonica delle cascine, edificate secondo elementi strutturali comuni. Si racconta che l’ultima discendente della famiglia, zitella, aderì al cattolicesimo e lascò l’eredità in dote alle Carmelitane, le suore devote a Santa Teresa d’Avila, anch’essa figlia di ebrei convertiti. Segni di questa storia sono la strada «Missione» che ancora oggi si snoda su questo tratto di collina e l’affresco della santa spagnola, che trovammo sulla facciata della cascina dove iniziai a distillare.
Scelse il metodo a bagnomaria, ci può dire perché?
Per ragioni di tecnologia e, sarò sincero, di spazio. Avevo girato l’Italia e osservato vari metodi artigianali: a fuoco diretto, a vapore diretto. Ma mi colpirono gli alambicchi trentini costruiti dal maestro Tullio Zadra. Fu a lui che chiesi di costruire il mio impianto, realizzando il primo alambicco discontinuo a bagnomaria con vinacce sommerse del Piemonte. Si trattava di un impianto familiare, ben adatto a locali di medie dimensioni: la mia prima produzione fu di appena 600 bottiglie!
Che fusti scelse per l’invecchiamento?
Optai per l’acacia. Il mio sogno era realizzare una grappa chiara e invecchiata: operazione impossibile, in verità, perché anche il legno d’acacia, scelto per il suo colore tenue, tende a scurire il contenuto con il passare degli anni. L’acacia era anche un legno tipico delle colline piemontesi, assolutamente locale, quando ancora il rovere francese non aveva preso il sopravvento nelle nostre cantine. Utilizzai botti di media grandezza da 380 litri. Sa cosa scrissi sulle etichette della mia prima grappa di Barolo, nel 1980?
Che cosa?
«VOLUTAMENTE DIMENTICATA IN PICCOLI FUSTI DI ACACIA». Il motivo è semplice. Nessuno o quasi beveva grappa invecchiata, non c’era l’abitudine. Io dovetti sottolineare che, l’invecchiamento, non era casuale, ma un gesto volontario, una “errore” programmatico per tentare di elevare la qualità del mio prodotto e donargli una nuova dignità organolettica.

La prima etichetta di Grappa di Barolo “volutamente dimenticata”
Storia di Marolo, parte 3
Storia di Marolo, parte 1