Storia dei cocktail, le origini
Fare di necessità virtù. Spesso è questa la legge che regola la storia umana e quella dei cocktail non fa eccezione.
Molti fanno risalire la nascita dei cocktail alla fine dell’800, additando come motivi il cambiamento dei gusti, delle mode o la geniale nascita della miscelazione. In realtà, le origini del cocktail moderno, come molte delle creazioni umane, seguono le leggi della domanda e dell’offerta, l’invenzione di nuove tecniche produttive e la reazione a determinati eventi esterni.
L’insetto che cambiò il mercato
La prima apparizione della parola cocktail, la cui etimologia è ancora assai discussa, apparve il 13 maggio 1806 sulle colonne del Balance & Columbian Repository, un settimanale che veniva pubblicato a Hudson, New York. «Il cocktail», vi si legge, «è una bevanda stimolante composta da liquori di vario tipo, zucchero, acqua e amari». Una definizione assai moderna, come se il cocktail fosse nato già contemporaneo. In realtà, bisogna fare alcune precisazioni. Con «liquore», all’epoca, s’intendeva principalmente un distillato ottenuto dall’uva, dal vino o dalla frutta. Bere un «liquore» significava chiedere al bancone del Brandy, del Cognac, dell’Acquavite e, almeno in Italia, della Grappa. È dunque assai probabile che la prima miscelazione avvenisse con questi distillati a cui, come è noto, si aggiunse il Vermouth, anch’esso ottenuto a partire da una base di vino fortificato e amaricato.
Proprio mentre il Vermouth, a cavallo tra il XIX e XX secolo, lanciava in tutto il mondo la moda dell’aperitivo, la fillossera assestò un colpo quasi mortale alla viticoltura. In Europa, continente dal quale proveniva la quasi totalità della produzione enoica del Pianeta, la Daktulosphaira vitifoliae (questo il nome dell’insetto fitofago noto come fillossera) distrusse la maggior parte dei vigneti, facendo precipitare la produzione di vino e decimando il patrimonio ampelografico di molte nazioni.
Tutti i prodotti a base vino o crebbero di prezzo o non potevano più sostenere la richiesta di massa che il XX secolo portava con sé. Le liste dei cocktail dovettero subire un drastico aggiornamento: al posto di Brandy, Vermouth e Cognac cominciarono a comparire gli spiriti nazionali e internazionali, un tempo considerati prodotti di risulta o “di estrazione rurale”. Gin, Vodka, Rum e Calvados, che la nuova industria poteva produrre in quantità mai sognate, si riversarono nei bar dell’Occidente, stimolando la fantasia e la creatività dei proprietari e favorendo la nascita della miscelazione. I nuovi liquori costituivano il “nerbo alcolico” e “neutro” del cocktail che, per migliorare e armonizzare il suo gusto, doveva ricorrere all’aggiunta di succhi di frutta, bitter, spezie ed essenze, sapientemente dosati ed equilibrati dalla nuova figura del mixologist.
Leggi il nostro post dedicato alla storia del Vermouth
Soda e ghiaccio, i cocktail conquistano il mondo

Anyos Jedlik
A coronare la fortuna dei cocktail intervennero altri due fattori di tipo produttivo: l’invenzione della soda, ovvero dell’acqua frizzante, e l’industrializzazione del processo produttivo del ghiaccio. Quest’ultimo, fino alla metà del 1800, era un bene di lusso, veniva conservato tra mille difficoltà in ghiacciaie interrate (ghiaccio “sporco”, per la conservazione o il raffreddamento esterno degli alimenti) oppure segato e importato a blocchi da fiumi e laghi ghiacciati delle zone più a Nord del Pianeta (ghiaccio “pulito”, che poteva essere utilizzano all’interno delle bevande alcoliche).
I primi tentativi per la fabbricazione dell’acqua gasata si devono all’inglese Joseph Priestley, che già nel 1767 scoprì il modo di aggiungere anidride carbonica all’acqua. Ma il merito della sua diffusione va ad Anyos Jedlik, uno scienziato ungherese che fondò una fabbrica di acqua frizzante a Budapest. All’alba del XX secolo, un buon bar non poteva dirsi tale se non possedeva un sifone pressurizzato, brevettato a Londra dalla Hiram Codd, grazie al quale “spumantizzare” i cocktail più alla moda.

Thaddeus Lowe
Il ghiaccio artificiale si deve invece all’americano Thaddeus Lowe, la cui prima passione, a dire il vero, fu l’aeronautica. Lowe, i cui studi sull’idrogeno ne fecero un pioniere dei palloni aerostatici, brevettò nel 1866 la prima macchina in grado di raffreddare l’acqua tramite scambi di calore e trasformarla in ghiaccio.
Se i palloni aerostatici lo avevano reso famoso (erano infatti utilizzati da tutti gli eserciti del mondo per le ispezioni belliche), fu il ghiaccio a renderlo ricco. La sua ice making machine rivoluzionò l’industria alimentare basata sul freddo e offrì a tutti la possibilità di bere bevande fresche, a un prezzo ragionevole, in qualsiasi stagione.
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